IL RIFLESSO DELLA LUNA
Racconto completo

CAPITOLO 1


Un pomeriggio insolito



Campus inglese


“Anche per oggi è finita”. Questo era l’unico pensiero di Alex uscendo dalla classe. Non ne poteva più di stare a scuola dalle otto fino alle quattro del pomeriggio, ma ormai mancava poco all’inizio delle vacanze estive: ancora un paio di settimane e poteva tornarsene a casa…
Uscì dall’immenso college di Moreton Hall passando per l’imponente scalinata dell’ingresso, dirigendosi poi verso il suo alloggio, poco lontano dalla scuola.
La strada che portava al campus era fortunatamente deserta: “Anche oggi sono stato graziato” pensò, con un sospiro di sollievo. Era infatti dall’inizio del trimestre che un gruppo di ragazzi più grandi di lui avevano iniziato ad offenderlo, da qualche tempo anche abbastanza pesantemente, per colpa della sua “eccessiva riservatezza”. Non capiva come potesse dare fastidio quel suo comportamento, ma pensava che fosse solo un capro espiatorio. Non era di costituzione robusta, sicuramente non poteva difendersi da quei tre bulli. Comunque nessuno pensava al perché di quello stato emotivo di Alex; lui se ne rammaricava, ma nello stesso tempo non voleva confidarsi con nessuno, forse perché nessuno gliene dava la possibilità.
Un’altra giornata finiva così, nella solita monotonia; monotonia che gli era cara.
Si sdraiò sul letto sfinito, e fissò il soffitto per un tempo che gli parve infinito, fino a quando un rumore improvviso lo svegliò da quello stato di trance in cui era caduto.
Si alzò per controllare e vide che il vetro della finestra della sua camera era stato rotto da un sasso. Guardandolo meglio, notò che il sasso era avvolto in un foglio strappato da un quaderno. Sebbene Alex immaginasse il contenuto del biglietto a lui indirizzato, e tremasse al solo pensiero, lo stirò e lo lesse: il messaggio era estremamente chiaro e conciso: “La prossima volta tornerai qui in ambulanza”, firmato: “Il tuo Incubo”.
Riuscì a vincere la paura solo dopo qualche minuto, cestinò il biglietto minatorio e si avviò dal direttore del campus per richiedere la riparazione della finestra. Il fatto lo infastidiva parecchio: era già la terza volta quel mese che il vetro della finestra della sua camera veniva rotto e molti “simpatici messaggi” simili all’ultimo gli erano già stati recapitati. E qualche volta passavano direttamente dal dire al fare…
Entrò quindi nell’ufficio del direttore e, nascondendo la sua paura, gli relazionò l’ormai ricorrente misfatto e pose la richiesta di sostituzione.
William, il direttore, era forse l’unica persona che conosceva in quel posto che avrebbe potuto aiutarlo a risolvere i suoi problemi. Preferiva comunque non coinvolgerlo: se avesse fatto dei nomi, per lui sarebbe stata decisamente la fine. William sospettava che qualcosa non andasse; visto che durante le ricorrenti visite del ragazzo nel suo ufficio aveva notato la sua eccessiva serietà che a volte veniva sostituita da una falsa spensieratezza. Alex gli faceva molta pena, e la sua riservatezza poneva un muro tra loro che gli impediva di capire quali fossero i suoi problemi reali. Sarebbe stato inutile e controproducente alzare un polverone su episodi di bullismo, alzando accuse magari infondate o punendo ragazzi senza averne le prove.
Una cosa però poteva farla e non esitò nella sua realizzazione. Dopo aver tranquillizzato Alex, assicurandogli che la sua finestra sarebbe stata cambiata prima del coprifuoco, gli disse: “Domani sera, se ti va, vieni a cena a casa mia. Ti voglio presentare una persona con cui sono sicuro andrai molto d’accordo.”. Sorpreso da quell’invito inaspettato e, soprattutto, dalle ultime parole del direttore che lo incuriosivano alquanto, Alex accettò senza pensarci troppo: aveva bisogno di cambiare aria anche solo per una sera.
Tornando verso il suo appartamento, pensò come aveva fatto il direttore William a capire il suo problema. “Pensandoci bene” riflettè “non gli ho mai accennato come mi sento, né ho detto qualcosa grazie alla quale avrebbe potuto intuirlo”. Una volta entrato nel suo alloggio, Alex si sdraiò sul suo letto e mentre l’aria fresca della primavera inglese passava per la spaccatura della finestra pensò “Che si possano capire così facilmente i sentimenti di una persona solo guardandola in faccia per poche volte? Se così fosse, sarebbe tutto più difficile, ed avrebbe anche poco senso nasconderli… spero solo di non lasciarli trasparire proprio tutti… ”.



CAPITOLO 2


Una serata speciale



Bentley GTS


Alex era sempre più preoccupato: anche il giorno seguente quei ragazzi non si erano fatti vedere e la cosa, anziché rassicurarlo, lo faceva innervosire ancora di più.
Tornando da scuola, camminava con il pensiero fisso che di lì a poco qualcuno sarebbe saltato fuori da dietro un cespuglio o da qualche albero per insultarlo o pestarlo. Una volta arrivato al campus, il tragitto percorso sembrava fosse durato ore.
Appena entrato nel suo appartamento controllò quasi involontariamente la finestra: era intatta come l’avevano lasciata gli addetti alla manutenzione la sera prima.
Andò a lavarsi e si sdraiò poi sul letto come aveva fatto il giorno prima, quando sentì qualcuno bussare alla porta.
Alex inizialmente decise di non andare ad aprire. “E se fossero loro?” era l’agghiacciante preoccupazione che gli martellava il cervello.
Ma poi riconobbe la voce familiare del direttore William che lo esortava ad aprire. In quel preciso istante, Alex si ricordò dell’invito a cena del direttore ricevuto il giorno prima.
Aprì la porta e salutò allegramente il direttore. Si avviarono insieme verso il parcheggio del campus. Salito nell’autovettura del signor William, Alex pensò che fosse davvero un bene che il direttore lo avesse invitato a cena: avrebbe evitato così di incontrare “qualcuno” di indesiderato lungo la strada che portava al refettorio.
In auto, ad Alex venne in mente anche la persona citatagli dal direttore e così chiese: “Signor William, chi era quella persona che voleva presentarmi?”.
“E’ una sorpresa, non vorrai mica che te la riveli prima del tempo, no? Lo scoprirai quando saremo arrivati a casa mia”.
La curiosità suscitatagli dalla persona misteriosa che il direttore voleva fargli conoscere e la conseguente voglia di arrivare il prima possibile presso la sua abitazione, fecero sì che ad Alex quel viaggio in auto parve durare tanto quanto il tempo impiegato a tornare al campus poco prima.
Il signor William parcheggiò la sua Bentley nera e insieme si avviarono verso la residenza del direttore.
Dopo aver aperto la porta, Alex sentì dire dal signor William: “Siamo arrivati!”
Appena varcata la soglia della casa di William, Alex vide una ragazza, più o meno della sua età, seduta a tavola. La prima cosa che poteva constatare con assoluta certezza, era che la ragazza era la più carina che avesse mai visto.
“Alex, ecco la persona che volevo farti incontrare. Ti presento Christine.”
Alex rimase impietrito. Il Moreton era un college maschile e quindi non era abituato a vedere tante donne, che fra l’altro erano vecchie professoresse. Era da molto tempo che non stava a contatto con ragazze, e soprattutto di così ammalianti!
Si riprese solo grazie ad una gomitata nel fianco da parte di William. Si rese conto che era tutto reale: lontano quanto basta dal campus e dai bulli e in compagnia di una ragazza bellissima… filava tutto a meraviglia, forse troppo. Alex era parecchio sospettoso: non poteva andargli così bene, sarebbe successo qualcosa, ne aveva la certezza. “Per il momento godiamoci la vita e basta preoccupazioni” cercò di autoconvincersi.
Dopo essersi risvegliato dall’effetto ipnotico provocatogli dal luminoso fascino di Christine, si avvicinò a lei, con la scusa di sedersi accanto. Così facendo poté guardarla meglio e più approfonditamente: oltre a un bellissimo viso, decorato con due zaffiri quali i suoi occhi, e incorniciato da dei lunghi capelli aurei che risplendevano di luce propria; aveva anche un corpo che lasciò a bocca aperta il povero Alex: il classico fisico delle pin-up che ogni tanto si vedevano nei giornali. Christine non aveva ancora parlato, ma quando Alex le si avvicinò, arrossì. Era evidentemente molto timida.
Per tutta la durata della cena entrambi non aprirono bocca, ma una volta terminato di cenare, William prese Alex in disparte e gli disse: “Che ti prende? Mica avrai paura di Christine, spero!”. Alex non era intimorito, tutt’altro, ma non sapeva proprio cosa dire per rompere il ghiaccio. William allora continuò: “Mentre io e mia moglie sparecchiamo la tavola, voi andate di là e vedi di tirare fuori la lingua!” Alex non voleva deludere William, e quindi andò a sedersi sul divano nel soggiorno accanto a Christine. Stava per parlare quando lei, con sua grande sorpresa, disse quasi impercettibilmente:
“Ciao, sono Christine, come ti ha già detto William, ma di solito tutti preferiscono chiamarmi Chris. Scusa se prima ti ho quasi ignorato, ma non mi sento a mio agio in mezzo alla gente”.
“Neppure io se è per questo.” rispose Alex “Ma ormai conosco bene il signor William e non mi preoccupa la sua compagnia”.
“Io lo conosco da una vita… ma con persone nuove preferisco parlare faccia a faccia”. Senza nemmeno accorgersene, i due parlarono per più di un’ora, e quando William disse loro che era giunta ora di tornare a casa, non dimostrarono molta felicità.
Alex era riuscito ad identificare in Christine qualcuno di speciale, simile a lui e che quindi capiva al volo il suo stato emotivo. Come potevano già separarsi?
Durante il viaggio di ritorno William chiese ad Alex: “Allora, piaciuta la sorpresa?”
“Sì, davvero molto, devo ringraziarla. Sebbene sia timida, è una ragazza molto simpatica. Mi piacerebbe incontrarla ancora in futuro.”
“Potrai farlo tutte le volte che verrai a casa mia: Christine è mia figlia.”



CAPITOLO 3


Irruzione!



Autovetture della polizia inglesi


Quella notte ad Alex pareva non finire mai. Finalmente aveva incontrato una persona con cui parlare senza preoccuparsi di essere ignorato o offeso. Ed era pure una gran bella ragazza! Continuò a pensare a lei per tutto il resto della nottata: si rese conto di essersi innamorato di Christine. Era la prima volta che succedeva, anche perché forse non aveva mai conversato con una ragazza per così tanto tempo; gli capitava con sua madre, che però non si poteva certo considerare una seducente teenager, nonostante fosse una bellissima donna gli anni passavano anche per lei.
L’ultima volta che Alex aveva pensato ai suoi familiari era molto remota, in quel periodo d’altra parte non aveva avuto respiro con tutti i misfatti che i bulli gli giocavano. Non ne aveva più notizie da una ventina di giorni e nessuno aveva pensato di fargli almeno una chiamata per sentire come stava, né suo padre e sua madre, che erano archeologi e lavoravano al momento fuori dall’Inghilterra, in Africa; né suo fratello, che viveva all’estero, in Florida, e lavorava alla Cape Canaveral Air Force Station.
Certo che dei genitori in giro per il mondo a caccia di reperti e un fratello con gli shuttle per conto del governo americano sarebbero oggetto di ammirazione… se avesse avuto degli amici. La sua famiglia, però, gli provocava sempre un certo effetto soporifero, infatti si addormentò.
La mattina seguente si alzò appena in tempo e corse al college: non voleva iniziare male la giornata dopo quella fantastica da cui era reduce; ma si stava preoccupando inutilmente. Arrivato all’ingresso del Moreton, Alex notò una massa di studenti che aspettava fuori, seduta sulla scalinata. “Strano che sia ancora chiuso,” pensò “di solito è già aperto da una decina di minuti”. Cercò quindi di capire cosa stava succedendo. Fra la folla in attesa Alex vide anche William che parlava con alcuni professori: dall’espressione sembrava molto preoccupato. Gli si avvicinò e gli chiese cosa era successo.
“Qualcuno è entrato a scuola scassinando una delle porte che danno alla cucina. Stanno ancora investigando se è stato rubato qualcosa. Non ho nemmeno la certezza che oggi vi facciano entrare.” fu la sua spiegazione frettolosa. Ad Alex tutto pareva molto strano: era la prima volta che sentiva di “escursioni” al Moreton fuori orario. La sorveglianza era attiva sia di giorno che di notte, sia dentro che fuori dall’edificio. Dopo quasi cent’anni di inviolabilità, qualcuno era riuscito ad intrufolarsi all’interno di quello stabile.
Dopo circa un’ora tutti gli studenti furono rimandati nei propri alloggi e Alex tornò quindi al campus; ma una volta arrivato al suo appartamento, quando tentò di aprire la porta si accorse che qualcuno lo aveva preceduto. Un gigantesco brivido di terrore gli percorse tutta la schiena; cercò nella tasca della divisa l’unica chiave della camera in suo possesso: era sicuro che fosse lì, e infatti la trovò. Controllò la serratura della porta: era stata scassinata, come quella della cucina del Moreton. Entrò e vide che la stanza era sottosopra: l’armadio aveva le ante aperte e il contenuto era stato sparso sul pavimento; lo stesso era successo alla valigia e alla borsa che per far spazio aveva messo sopra di esso; i cassetti della scrivania erano stati tirati con forza. Tutto lì dentro era stato profanato. Passato il momento di smarrimento Alex si decise di chiamare aiuto, ma si bloccò quando notò, attaccato alla porta, un grosso coltello. C’era un messaggio per lui, ma non del genere che si aspettava. Infatti non riusciva a comprenderne il senso; non era così diretto come i soliti: “Questo potrebbe essere solo l’inizio”. Alex non capiva. Per il momento la cosa più importante era informare le guardie e William di ciò che era successo, e così dopo una lunga corsa raggiunse il direttore e lo informò dell’accaduto. Egli, senza pensarci due volte chiamò la polizia. Nel giro di cinque minuti arrivarono quattro volanti dalle quali uscirono otto agenti che iniziarono immediatamente le indagini. Fortunatamente, oltre alla fama di inviolabile, il Moreton godeva di agganci molto influenti. Per un “tentato furto” avvenuto all’interno di un normalissimo college sarebbero giunti probabilmente solo due agenti.
William disse ad Alex: “Non ti lasceranno entrare nella tua stanza fino a che non avranno ultimato le indagini e la cosa sarà parecchio lunga. Non ci sono nemmeno più appartamenti liberi. Forza prendi la tua roba, fa in fretta! Ho inviato un’e-mail ai tuoi genitori: ti trasferirai da me a tempo indeterminato.”



CAPITOLO 4


Scomparsa



Corridoio grande della villa


Era accaduto di tutto negli ultimi due giorni. La sua vita aveva avuto un profondo cambiamento nel giro di pochissimo, ma sebbene la situazione stesse relativamente migliorando, Alex provava dentro di sé una strana sensazione: quel messaggio lo aveva sconvolto, cosa potevano volere quegli ignoti da un ragazzo come lui? Forse il “tentato furto” al Moreton Hall era stato inscenato solamente per attirare studenti e vigilanza lontano dai dormitori per parecchio tempo, in modo da avere campo libero per entrare nel suo appartamento e cercare quello che volevano, chissà poi cosa! Quel pensiero gli tartassava la mente.
Alex, fittamente assorto nei suoi pensieri, non si era accorto che qualcuno bussava alla porta. I colpi aumentarono di frequenza e di intensità e così riuscirono a riportarlo alla realtà. Andò ad aprire: era Christine. Un rossore improvviso le colorò il pallido viso appena incrociò lo sguardo del ragazzo. Si era allenata molto per trattenersi, ma non riusciva a comandare le sue emozioni. Gli disse: “Mio padre ti vuole parlare, Alex. Vorrebbe che tu lo raggiungessi subito nel suo studio.” Annuì e Christine gli fece strada. La villa del direttore del campus era veramente enorme, tanto che si rischiava di perdersi. Dopo qualche minuto era già seduto su un’elegante poltrona di età barocca, davanti a una scrivania di mogano. Il padrone di casa era in piedi e guardava fuori dalla finestra, era molto pensieroso, e Alex non riusciva a capire se fosse un bene o un male. Poco dopo gli disse : “La scientifica ha appena terminato le analisi in camera tua: esaminando la federa del cuscino, hanno riscontrato una grossa quantità di acido cianidrico. Qualcuno evidentemente voleva farti vincere un viaggio di sola andata per l’altro mondo.” Dopo questa rivelazione, Alex impallidì di colpo. Non erano sufficienti i bulli che lo importunavano ogniqualvolta non avessero nulla di meglio da fare, adesso c’erano anche delle persone che ne volevano addirittura la morte. Ma cosa poteva mai aver combinato? Non faceva mai nulla, era sempre stato un tipo solitario. Chi aveva motivo per serbargli tanto rancore?
William dopo una breve pausa continuò: “Ormai è ufficiale, è più sicuro che tu stia qui. Da oggi in poi baderò io a te. Ora il Moreton, oltre che dal personale della sicurezza, sarà sotto la vigilanza di numerosi agenti di polizia. Non riesco ancora a crederci; oltre ad aver perso la fama di inviolabile, è avvenuto anche un tentato omicidio.”
Da quando era entrato Alex non aveva detto nulla, si era limitato ad ascoltare, ma una volta che William ebbe concluso disse: “Voglio parlare con i miei genitori, anzi, devo dire loro quello che è accaduto, che potevo morire! Posso telefonare?” William continuò a fissare un punto imprecisato fuori dalla finestra, poi si girò e guardando in faccia lo studente gli rispose: “D’accordo Alex, ma devo avvertirti: i tuoi genitori sono impegnati in una missione top secret. Pare che la loro spedizione nel deserto del Sahara, dove stanno svolgendo scavi archeologici, sia finanziata dal governo americano. Non ne so molto nemmeno io. Sono controllati parecchio, ti daranno al massimo cinque minuti.” Detto ciò si avvicinò alla scrivania e prese un cellulare, digitò un numero sulla tastiera e parlò con qualcuno. Scambiate un paio di parole, passò il telefono ad Alex dicendogli: “Hai pochissimo tempo, non sprecarlo.” Alex prese con le mani tremanti il telefono e lo accostò all’orecchio. Udì subito la voce del padre. Scaricò la sua preoccupazione tutta d’un fiato raccontando quello che era successo negli ultimi giorni: i bulli, il Moreton, la sua camera a soqquadro, il veleno… ma suo padre non sembrava, stranamente, molto sorpreso. Gli diceva di stare calmo e pareva come che si aspettasse fatti simili. Parlò anche con sua madre, che gli disse trattenendo a stento i singhiozzi dovuti al pianto: “Ieri ci ha telefonato la NASA, dicono che è da due settimane che tuo fratello non si presenta al lavoro. Sembra che sia scomparso. Secondo noi, i criminali che hanno rapito tuo fratello sono gli stessi che hanno tentato di ucciderti. D’ora in poi evita qualsiasi contatto con estranei e non andare da nessuna parte, se non accompagnato dal signor William. Chiunque abbia tentato di farti del male, può provarci un'altra volta. Abbi cura di te, piccolo mio, ti vogliamo bene.” Pronunciate queste ultime parole materne, la linea cadde. Il tempo della telefonata era scaduto. Alex restituì il telefono a William e, senza dire una parola, uscì dalla stanza. In quel momento voleva unicamente stare solo in quella che era diventata la sua nuova camera da letto.



CAPITOLO 5

Showtime!



Beretta M9


La mattina seguente, William accompagnò Alex al college e lo scortò fino alla sua aula. Sceso dalla Bentley del direttore aveva notato, dirigendosi verso la scuola, l’aumento della sorveglianza: arrivò a contare una ventina di persone fra responsabili della sicurezza e agenti. Perfino nel bel mezzo delle lezioni vi erano poliziotti che entravano per alcuni minuti e poi se ne andavano, per ritornare nemmeno mezz’ora dopo. Più che in una scuola, sembrava di essere in una caserma o addirittura in un carcere.
Nella pausa pranzo, William rimase incollato ad Alex. Il ragazzo si sentiva quasi oppresso dalla sua presenza, ma capiva che era la cosa migliore per lui. Verso sera, però, nell’ultima ora scolastica, accadde qualcosa di imprevisto: la sirena dell’allarme antincendio iniziò a suonare e tutti furono costretti ad evacuare l’edificio. Nel cortile tutti gli studenti erano ammassati, in attesa del via libera per rientrare. Ad Alex venne un’improvvisa preoccupazione: e se l’allarme fosse un pretesto per giungere a lui inosservati? D’altra parte, in mezzo a tutta quella folla di gente, chiunque avrebbe potuto eludere la sorveglianza. Cominciò a guardarsi attorno, nervoso, cercando di cogliere qualsiasi movimento sospetto, ma non era facile: tutti cercavano di farsi spazio attorno a lui. Fu preso dal panico, qualcosa dentro di lui gli diceva che tutta quella confusione aveva come unico obiettivo il suo rapimento, o peggio la sua uccisione… e le sue previsioni si avveravano sempre al novantanove per cento. Pregò per quell’uno per cento. Alcune guardie gli si avvicinarono e una di loro gli disse: “Il direttore William vuole che tu lo raggiunga immediatamente, vieni con noi.” Le seguì, rincuorato. Si avviarono insieme verso il campus, ma, una volta che ebbero lasciato alle loro spalle gli studenti ammassati fuori dal college, gli agenti deviarono prendendo la strada che portava al parco del Moreton. Alex era perplesso, quella via non portava a casa del direttore. Non si sentiva più così al sicuro, c’era qualcosa nell’aria… un altro pensiero orrendo prese forma nella sua testa. Dai cespugli ai margini del viale uscirono allo scoperto alcuni uomini in nero e simultaneamente le guardie estrassero le pistole dalla fondina e si girarono verso Alex, puntandogliele contro. Lo pseudo - agente che in precedenza gli aveva detto di seguirlo disse: “Una sola mossa falsa, e ti facciamo fuori. Non esiteremo un secondo, ti avverto.” Pensò subito che probabilmente delle guardie erano in realtà coloro che avevano tentato di ucciderlo appena ventiquattro ore prima. Non riusciva a credere di saper elaborare pensieri così lucidi in una situazione tale, ma adesso doveva preoccuparsi d’altro. “E ora? Che mi succederà?”. Alex si sentiva di poter scoppiare a piangere come un poppante da un momento all’altro. Procedettero fino al parcheggio del college e lo spinsero all’interno di una Mustang rossa. Proprio in quel momento sopraggiunse un’auto nera ad altissima velocità, scagliandosi sui rapitori rimasti nel parcheggio. Questi non ebbero nemmeno il tempo materiale di mirarla con le loro Desert Eagle che furono investiti. I pochi uomini in nero rimasti illesi estrassero le loro mitragliette Uzi, ma un passeggero dell’auto misteriosa aprì il fuoco tempestivamente sui pochi sopravvissuti con una Beretta M9. Alex, che nel frattempo si era nascosto dietro la Mustang, lasciò la sua postazione solo quando non udì più alcuno sparo. Vide l’auto del suo salvatore ma, complici lo shock emotivo, gli spari, le vittime, il polverone alzatosi, non la identificò di primo acchito. In quel caos, l’unica cosa che riuscì a realizzare era che la portiera posteriore dell’auto si era aperta. Quasi meccanicamente, inconscio del fatto che sarebbe potuto finire dalla padella alla brace, salì a bordo… anche perché forse peggio di così difficilmente poteva andare. Voleva allontanarsi a tutti i costi da quella carneficina.
L’auto partì a tutta velocità e imboccò immediatamente la tangenziale. Dopo qualche minuto qualcuno domandò: “Tutto ok?”. Quella voce, come era avvenuto non tanto tempo prima, lo risvegliò e lo riportò alla realtà. Catapultò la sua attenzione sull’autista, e vide quello che si aspettava e sperava: il suo salvatore, William, che guidava comodamente la sua Bentley.



CAPITOLO 6

Attacco orbitale



Stemmi: a partire da sinistra della CIA e della NSA


“John, fai attenzione. Potrebbero essercene altri.” L’uomo a fianco di William, quello che aveva sparato poco prima con la Beretta M9, controllava scrupolosamente la strada in cerca di probabili inseguitori, ma non ve ne era alcuna traccia.
Alex era nella confusione più totale: William era dalla sua parte, o no? “Dove mi state portando?” chiese improvvisamente. William rispose: “Adesso non possiamo dirti nulla. Saprai tutto quando arriveremo alla base. Per il momento la nostra priorità è portarti al sicuro. Pensavamo che la polizia bastasse a proteggerti: chi poteva immaginare che riuscissero ad infiltrarsi tra gli agenti…” Più che rispondere alla domanda, sembrava quasi che stesse parlando tra sé e sé.
Arrivati alla villa, William nascose l’auto e fece cenno agli altri due di seguirlo all’interno.
Li accompagnò nel suo ufficio e fece accomodare il ragazzo sulla poltrona sulla quale si era seduto soltanto il giorno prima, quando era stato messo a conoscenza che la sua vita era in pericolo. Ancora una volta lì avrebbe saputo la verità: sperava non ci fossero nuovamente brutte notizie, ma il suo sesto senso gli diceva tutt’altro. John invece restò in piedi, con la pistola in mano accanto alle finestre dello studio, nel caso in cui i malfattori decidessero di fare irruzione anche nella casa del direttore.
William si sedette al di là della scrivania, dopo qualche minuto prese una lunga boccata d’aria e cominciò a parlare: “La situazione si è evoluta peggio di quanto pensassimo. Ora come ora è meglio che tu sia messo a corrente di alcuni fatti: ne va della tua vita, forse del mondo intero.” Le parole di William fecero scendere un sipario d’inquietudine nella sala. Dopo una piccola pausa, proseguì: “Molto probabilmente avrai già capito che non sono un professore del college né tantomeno il direttore di questo campus. In realtà sono un agente della CIA che lavora sotto copertura qui in Inghilterra, per conto ovviamente del governo americano. Il mio compito inizialmente era di tenerti d’occhio, ma ora devo proteggerti. Lo Zio Sam ha inviato anche un altro agente in mio aiuto saputo dell’irruzione al Moreton Hall, ovvero John Harris dell’NSA. Dovresti ringraziarlo, ti ha salvato la pelle poco fa.”. Alex si girò e solo in quel momento lo osservò bene. Sulla quarantina, alto, con un fisico asciutto e atletico, capelli neri; anche i suoi occhi erano scuri e quando li incrociò si rese conto che gli doveva rispetto e gratitudine: “Grazie.” gli disse. “Pensavamo fosse sicuro tenerti lontano dai tuoi familiari, per proteggere loro e per badare meglio a te. Non ci aspettavamo che avessero contatti ovunque.” Gli spiegò John. “Scusate, ma chi diavolo sono quelli che mi vogliono? Conoscete qualcosa di loro?”. John gli rispose prontamente: “Diciamo che quella di oggi non è stata la nostra prima esperienza con loro. Non sappiamo esattamente chi siano, quindi nemmeno il nome della loro organizzazione; forse hanno interessi archeologici e militari, ma stiamo navigando in mare aperto. Visti i mezzi che hanno a disposizione, escludiamo che possa essere un gruppo isolato di criminali. Hanno sicuramente qualche pezzo grosso che li supporta economicamente; sono professionisti vista la loro abilità nello sparare, magari ex militari o mercenari. Noi ci riferiamo a loro come gli ‘uomini in nero’.” Piombò il silenzio. Alex stava riflettendo. “E adesso, cosa avete intenzione di fare con me? Mi porterete lontano? E dove? Se sono riusciti quasi a rapirmi qua al Moreton, dove mi manderete? Quelli riuscirebbero ad entrare perfino nella Casa Bianca… le misure di sicurezza non sono servite a niente, sono addirittura riusciti a rapire mio fratello… come possono aver fatto poi, a rapirlo da una base americana in territorio americano?”. “Non possiamo ancora darti questo genere di informazioni. Te lo dirà chi di dovere. Adesso…”. Harris interruppe William: “Cazzo, sono già qui.”. “Quanti sono John?”. “Sono arrivati con tre Mustang nere come quella degli altri uomini in nero che abbiamo ucciso nel parcheggio, evidentemente non gli è bastata la lezione.” William, visibilmente preoccupato, disse: “Questa proprio non ci voleva.” In quel momento entrò nello studio Christine, spaventata: “Chi sono quelli là fuori, papà?” Alex pensò che nemmeno lei sapesse della reale occupazione del padre, la copertura era stata davvero perfetta. “Non pensarci, adesso tu vieni con noi. La mamma è già al sicuro, non preoccuparti. Alex riguardo al lavoro dei tuoi e al coinvolgimento di tuo fratello, saprai tutto a tempo debito. Adesso ce ne dobbiamo andare, e anche abbastanza velocemente.”. “Ma siamo in trappola: sono almeno una dozzina! Ci massacreranno!” Iniziò ad alterarsi, ma William, mantenendo i nervi saldi, rispose: “Non preoccuparti: non siamo soli ragazzo!” Un istante dopo si udì il rumore di rotori di elicotteri in avvicinamento. Gli uomini in nero che erano usciti dalle auto e che puntavano gli Uzi alle finestre della villa, si fermarono di colpo. Si erano accorti dei velivoli che sopraggiungevano alle loro spalle, provarono a prenderne le contromisure, ma era troppo tardi. Al suono dei rotori si unì il rimbombo dei proiettili sparati da alcuni mitragliatori di grosso calibro che falciarono gli uomini nel parco. Alcuni tentarono di rifugiarsi dietro le auto, ma dagli elicotteri partirono due piccoli missili, che esplodendo distrussero le auto ed eliminarono gli ultimi superstiti. Liberato il parco dai nemici, William uscì dalla villa seguito da Alex, Christine e l’agente Harris. Uno degli elicotteri, il più grosso, presumibilmente da trasporto, atterrò. Esibiva nella parte anteriore una bandiera a stelle e strisce. “Sbrigatevi ragazzi! Guardate solo verso l’elicottero. Non potete reggere la visione degli effetti devastanti di queste armi”. Alex seguì alla lettera la raccomandazione. Alzò lo sguardo e contemplò anche gli altri due elicotteri di supporto. Non sapeva se essere triste o felice di quello che era accaduto, optò per una finta indifferenza, e seguì gli altri.


Elicottero da trasporto CH-47



CAPITOLO 7


Quando il deserto si dipinge di rosso...



Bell-Boeing V-22 Osprey


Non appena l’ultimo passeggero fu salito a bordo, l’elicottero da trasporto decollò scortato dagli altri due. Si allontanarono rapidamente. John non era tranquillo e continuava a scrutare la villa col binocolo come se si sentisse che stava succedendo qualcosa. Infatti: “Merda, sono arrivati i loro rinforzi! Fortunatamente siamo riusciti a metterci in salvo, ma c’è il rischio che scoprano qualcosa se setacciano la villa.”. William estrasse un piccolo telecomando dalla tasca della giacca: “Non preoccuparti, avevo già previsto questa eventualità. Non ne avranno il tempo.”. Detto questo premette un pulsante e Alex sentì un susseguirsi rapido di esplosioni. Quando guardò fuori dal finestrino era già tutto finito: al posto dell’edificio era rimasto un enorme cumulo di macerie. “Nessuno sopravvissuto. Speriamo che la polizia locale non si sconvolga troppo.”, disse l’agente Harris, guardando nuovamente con il binocolo.
Qualche minuto dopo il pilota informò i passeggeri: “Raggiungeremo la flotta Task Force 16 fra due ore abbondanti. La portaerei USS Abraham Lincoln si trova a trecento chilometri a ovest dalla costa francese della Bretagna.”. “Perfetto. Ottimo lavoro.”, disse John.
Nonostante il rumore assordante dell’elicottero, Alex non poté desistere dall’addormentarsi. Gli avvenimenti degli ultimi giorni lo avevano stremato veramente. Christine invece si limitò a guardare il mare che si avvicinava pian piano dai finestrini dell’elicottero.
Al suo risvegliò, Alex notò la gigantesca mole della portaerei che si ergeva sulla linea dell’orizzonte. Gli elicotteri atterrarono quando ormai era cominciato ad imbrunire e i passeggeri furono accolti da un militare pluridecorato, abbastanza anziano, e con il volto austero, che si presentò: “Piacere. Sono l’ammiraglio Morrison. Dovrò fare in modo che veniate scortarti tutti e quattro in Africa. Questo è quanto”. “Africa?” pensò Alex “Che diavolo ci andiamo a fare? Che vogliano portarci dai miei genitori? No, così rischiamo di coinvolgere anche loro!”. William si mise a discutere con l’ammiraglio: “Come arriveremo in Africa? Gli elicotteri non hanno autonomia sufficiente e con la nave ci metteremo troppo tempo.”. “Lasci fare a noi.” rispose Morrison “Abbiamo preparato un mezzo adeguato al viaggio che dovrete compiere. Per il momento andate a riposare nelle vostre stanze, vi servirà. Domani mattina signor William, prenda i due ragazzi e prosegua accompagnato dal guardiamarina Stuart che la aspetterà fuori dalla sua camera. Agente Harris, lei invece dovrà raggiungermi nella sala comando.”. Date le direttive, Morrison si allontanò, gli altri si ritirarono come era stato loro ordinato. La mattina seguente il marinaio aspettò i tre e li portò in una parte della pista di atterraggio completamente sgombra da aerei e parlò con un altro suo commilitone: “Tra quanto arriva il V-22 dalla portaerei Enterprise?”. Dopo aver scrutato il cielo, questi si limitò ad indicare con l’indice della sua mano una macchia bianca che s’avvicinava in mezzo a quell’infinita distesa d’azzurro. Era molto più grande di un elicottero, ma più piccolo di un normale aereo di linea. William esortò i ragazzi: “Prendete posto. Partiremo non appena Harris sarà di ritorno.”. Alex entrò per primo, ma c’era già un passeggero. Non poteva crederci: era proprio suo fratello Brian in carne e ossa! Si lanciò su di lui, qualche lacrima di gioia cominciò a scendere sulle sue guance. “Credevo ti avessero rapito! Dove diavolo sei stato?”. “ Ero sotto la protezione dei militari, non preoccuparti fratellino. É stata sparsa la voce del mio rapimento al fine di far credere all’organizzazione che vi è anche qualcun altro interessato alla nostra famiglia, ma evidentemente da me quelli non vogliono proprio niente. Ti hanno messo al corrente di quello che è successo a mamma e papà?”. “No, non ne so niente. Per favore non darmi brutte notizie, almeno tu…”. “Mi spiace, ma i nostri genitori sono stati rapiti e ora l’organizzazione misteriosa li tiene come ostaggi. Per questo adesso voleremo in Africa presso il sito archeologico dove stavano lavorando. Tenteranno di liberarli, speriamo che tutto vada per il meglio…”. Alex cercò di farsi coraggio e si sedette accanto al fratello. Harris ritornò: indossava una divisa da marine con un giubbotto antiproiettile e portava un fucile d’assalto M16 a tracolla assieme all’immancabile Beretta M9 in una fondina sulla cintura. Insieme a lui entrarono anche alcuni soldati armati pressappoco nel medesimo modo. Presero tutti posto e l’aereo decollò.
Nel giro di tre ore e mezza stavano già volando sopra la costa mediterranea dell’Algeria. John parlava a voce bassa con William e per gli altri passeggeri era impossibile captare la parole che si scambiavano. “Anche al governo locale la presenza di quegli individui risulta molto scomoda, e quando hanno scoperto che tengono in ostaggio alcuni civili americani hanno ancora più voglia di sbarazzarsene. Hanno provato a negoziare con loro, ma visto che le trattative si sono concluse con un nulla di fatto, ci hanno chiesto di intervenire militarmente. Il loro esercito li sta già tenendo occupati: noi dovremo cercare di passare inosservati, liberare i genitori dei ragazzi laggiù e portare tutti al sicuro. “Ok John, concentriamoci adesso, non possiamo fallire.”. Arrivati all’aeroporto di Mascara-Ghriss, situato una cinquantina di chilometri a ovest di Oran, finalmente l’aereo entrò in fase di atterraggio. Una volta sbarcati a terra, l’equipaggio salì su una jeep militare Wrangler YJ diretti verso il luogo degli scontri. Fecero un’ultima sosta di rifornimento alla città di Tlemcen. Dopo altre due ore circa di viaggio, Alex udì già in lontananza dei rimbombi provocati da armi da fuoco: la battaglia tra l’esercito algerino e l’organizzazione era in corso. Con una frenata improvvisa la jeep si bloccò. Ma cosa stava succedendo? Erano stati intercettati. I marines non fecero nemmeno in tempo a preparare l’equipaggiamento a terra che degli uomini in nero avevano già circondato il veicolo. Sorprendendo tutti, uno di loro uscì dal gruppo e immobilizzò le braccia di Alex. William fece per gettarsi in suo soccorso, ma l’uomo gli puntò la pistola contro: “Un solo movimento, e ti ammazzo!”. Si dovette fermare. I nemici erano veramente troppi, e se nemmeno l’esercito locale bastava a fermarli come avrebbe potuto farlo un contingente così ridotto? L’uomo che teneva Alex indicò a suoi scagnozzi di sabotare la jeep e di togliere le armi ai marines. Finito il lavoro e ottenuto ciò che volevano, il capo della banda criminale fece per andarsene, ma poi fissò nuovamente William: “Come puoi rimanere impassibile di fronte alla nostra potenza? Inginocchiati, bastardo, avanti!”. La pazzia era come improvvisamente entrata nella sua testa. Di fronte al rifiuto categorico dell’agente, imprecò: “Ora la pagherai!”. Gli punto la pistola contro e premette il grilletto, ma prima che il proiettile lo centrasse, imprevedibilmente Christine si gettò a protezione del padre fu colpita in pieno. Il sangue cominciò a zampillare dalla ferita e macchiò di scarlatto la sabbia del deserto. Il grido di William si mischiò a quello di Alex, creando un angosciante verso quasi disumano. L’assassino non ritentò il colpo e se andò con un ghigno malefico: il suo obiettivo lo aveva raggiunto ugualmente, anzi, ciò che era successo era peggio di una pallottola conficcata nelle cervella. William si gettò a terra, piangendo sul cadavere della sua unica figlia. Infine si maledisse di non essere lui quello disteso inanime a terra.



CAPITOLO 8


Oltre la realtà



Bunker nel deserto Sahara


Alex era confuso, stordito, e non aveva idea di dove si trovasse. Subito dopo aver visto Christine accasciarsi a terra senza vita, aveva perso i sensi.
Oltre a non sapere dove fosse, non aveva nemmeno la minima idea di quanto tempo fosse passato da quando lo avevano rapito. Tentò di alzarsi in piedi, ma le gambe non lo sorressero. Aveva anche la vista annebbiata: quei criminali dovevano averlo drogato con una qualche sostanza stordente. Dovette sdraiarsi nuovamente. Ripensò alla morte della ragazza, e si sentì amareggiato dalla sua impotenza: era appena deceduta l’unica persona che avesse mai amato.
I membri dell’organizzazione avevano tenuto come ostaggio solamente lui. Gli altri li avevano lasciati in mezzo al deserto senza armi ed equipaggiamento.
William era accanto al corpo di Christine. In una mano teneva ancora il proiettile che aveva strappato la vita alla sua piccola. L’aveva estratto poco dopo l’omicidio, aveva anche tentato di bloccare l’emorragia, ma ormai era tutto inutile. Harris e i marines sfuggiti agli uomini in nero riuscirono a riattivare la radio della jeep e a chiamare i soccorsi. Quando arrivarono i medici, all’alba del giorno seguente, notarono, però, una stranezza nel corpo della ragazza: la ferita era sicuramente profonda, ma non molto larga. Secondo il loro parere, un proiettile come quello non avrebbe lasciato un foro così piccolo. William confrontò le dimensioni dell’oggetto metallico che aveva recuperato dal cadavere con quelle della ferita sul corpo della figlia. Era incredibile: il foro si stava lentamente chiudendo. Un medico mise una mano sulla fronte della ragazza: “Non ci avevo nemmeno fatto caso: nonostante siano passate diverse ore dalla morte, il corpo è ancora caldo.”. Mentre nessuno si capacitava di quello che stava succedendo, Christine tossì sputando una modesta quantità di sangue. Il suo cuore aveva ripreso a battere! Mentre i medici erano sconcertati da questa specie di resurrezione, a William ciò che importava era che sua figlia fosse ancora al mondo. Nel frattempo era arrivata anche una squadra di soccorso che si era messa a riparare la jeep. Harris, intanto, discuteva con un ufficiale in merito alle operazioni militari contro gli uomini in nero. I nemici erano stati sconfitti e i pochi superstiti erano stati catturati e sottoposti a interrogatorio. Degli archeologi ostaggi, però, non vi era traccia. Li avevano trasferiti da qualche altra parte prima dell’arrivo dell’esercito. Harris si recò da William per aggiornarlo dei fatti. Dopo un attimo di smarrimento nel vedere la ragazza viva e vegeta, si riprese e raccontò le novità all’amico. Nonostante le sue obiezioni, gli dovette ordinare di tornare a Tlemcen con la figlia, Brian e la squadra medica.
Finito di riparare la Wrangler YJ, Harris vi salì e ripartì con i marines e con le armi che la squadra di soccorso era riuscita a portare con sé. Si erano aggiunti alla missione anche alcuni uomini del posto. Si diressero verso il luogo dove, secondo le informazioni dell’ufficiale governativo, si erano rifugiati gli ultimi nemici.
Questa volta non avrebbero temporeggiato: avevano l’ordine di uccidere chiunque gli impedisse di salvare archeologi e ragazzo. Harris, dopo aver assistito alla scena dell’omicidio della figlia del suo migliore amico, che chissà grazie a quale miracolo era ancora in vita, aveva come non mai la voglia di rispettare alla lettera i comandi.
Raggiunsero il luogo indicato e scesero a terra. Come previsto, all’ingresso di un bunker, c’erano alcuni uomini di guardia che, appena videro i soldati avvicinarsi, tentarono di alzare le armi, ma furono falciati dalle raffiche degli AK-47. Neutralizzate le difese esterne, fecero saltare la porta corazzata del bunker con dell’esplosivo C4. Lanciarono poi all’interno una granata stordente e dopo l’esplosione di quest’ultima fecero irruzione. Gli uomini all’interno non riuscirono a reagire per gli effetti della granata e i militari li uccisero senza alcuna pietà. Si fecero strada per ogni livello sotterraneo del bunker seguendo la stessa strategia a ogni nuovo piano: stordente e poi via a massacrare i nemici con i fucili d’assalto. Arrivarono al luogo dove erano tenuti i prigionieri ed eliminarono la resistenza. All’interno della stanza adibita a prigione vi era lo stesso individuo che aveva “ucciso” Christine con i suoi due ultimi uomini. Tenevano in ostaggio i genitori di Alex e Alex stesso, semi-incosciente a causa della droga che gli era stata somministrata. “Non avvicinatevi di un altro passo!” urlò. Dalla voce tremante e dagli occhi terrorizzati si capiva che era rimasto spiazzato dalla facilità con cui Harris e gli altri soldati avevano neutralizzato i suoi scagnozzi. “Giuro che li ammazziamo!”. Tolse la sicura alla sua pistola e la puntò ancora più a fondo sulla tempia di Alex. John aveva il Kalashnikov puntato sull’uomo, ma non osava sparare: la missione non era uccidere quel maledetto, ma salvare gli ostaggi. Questa posizione di stallo sarebbe andata avanti all’infinito se non fosse stato per un proiettile proveniente da dietro la squadra capitanata da Harris che colpì il tizio che minacciava Alex dritto in mezzo alla fronte. L’agente dell’NSA vide con la coda dell’occhio un uomo alle sue spalle, di cui però non distingueva i lineamenti del volto. La pistola che aveva in mano, invece, la notò eccome: stava ancora fumando dopo il colpo appena sparato.
Con lui c’erano altri soldati: in situazioni normali non ci sarebbero stati problemi, il battaglione di John era in netta superiorità numerica; ma qui c’erano ostaggi da proteggere. Colui che probabilmente era il boss dell’organizzazione avanzò lentamente e ordinò a uno dei suoi di prendere Alex. “Ti avevo pagato per catturare questo ragazzo e per portarlo da me, non per ucciderlo, idiota.” disse rivolgendosi al cadavere dell’uomo che aveva appena freddato. Tranquillamente com’era entrato, se ne andò dalla porta della prigione, scortato solo dal soldato che teneva sulle spalle Alex. Prima di andarsene ordinò infine ai due uomini che ancora tenevano in ostaggio gli archeologi di lasciarli andare. Harris analizzò la situazione: si trovava con davanti due e alle spalle un numero imprecisato di nemici che tagliavano la via di fuga a lui e ai suoi uomini. Scrutò le facce dei suoi compagni. Un ghigno gli venne spontaneo. Pensò: “Questi sono i momenti in cui sono felice di aver scelto di indossare questa divisa!”. Chiuse gli occhi un momento, prese un lungo respiro. Il silenzio nella stanza era quasi palpabile. Nessuno si muoveva. John riaprì gli occhi, si girò di scatto e con una ferocia spartana aprì il fuoco.



CAPITOLO 9


L'amore ritrovato



MiG dell'aviazione algerina


Alex si svegliò di colpo dal suo stato di trance, preso da forte sensazione di nausea. Si accorse che qualcuno lo stava portando in spalla come se fosse un sacco di patate. Si guardò intorno per capire dove si trovasse, ma la vista era ancora offuscata. Riuscì a malapena a scorgere un altro criminale con un fucile d’assalto accanto a quello che lo stava portando, e dietro di lui un uomo dalla camminata tranquilla che indossava uno smoking bianco. In lontananza si poteva captare un rumore ovattato di spari che Alex non poteva sentire perché la sostanza drogante gli aveva affievolito anche l’udito. Usciti dal bunker, il ragazzo avvertì su di sé il soffocante calore del deserto. Il boss dell’organizzazione invece continuava ad avanzare con il suo passo flemmatico, come se non avvertisse l’afa tremenda di quel luogo. Si sentì il rumore di rotori in avvicinamento: un elicottero privo di identificazione stava arrivando. Alex chiuse gli occhi. Rassegnato pensò: “Questa è davvero la fine.”. Avrebbe preferito di gran lunga essere pestato dai bulli del Moreton, come ai vecchi tempi, che venire separato dalle persone che amava in quel modo. L’uomo in smoking si fermò, guardò il suo prezioso orologio da polso e disse compiaciuto: “Perfetto.”. Il suo stato emotivo, però, durò per poco: mentre l’elicottero stava entrando in fase di atterraggio, un missile lo colpì sulla parte posteriore. Il velivolo andò in stallo e precipitò, esplodendo poco dopo essersi schiantato al suolo. Sopra di loro, velocissimi, passarono due caccia, probabilmente algerini. “Cazzo! Non ci voleva: sono dei MiG. Siamo bloccati qui, non abbiamo vie di fuga.”. Fece appena in tempo a terminare la frase, che fu falciato da una scarica di mitragliatrice e si accartocciò sulla sabbia cocente. L’energumeno ch sorreggeva Alex, invece, venne colpito alle gambe. Cadde dal dolore, liberando il ragazzo dalla presa. Alex colse l’occasione al volo, dopo un momento di smarrimento causato nuovamente da quella maledetta sostanza drogante, corse cercando di allontanarsi il più possibile. Inciampò, e vide davanti al suo naso degli scarponi militari. Alzò lo sguardo: era l’agente John Harris. Questi guardò il ragazzo ai suoi piedi, con un cenno del capo gli fece capire che era finalmente al sicuro, e puntò l’arma contro il tizio di biancovestito. “Ti dichiaro in arresto in nome del governo americano per omicidio ed associazione a delinquere!”, gli urlò. L’altro, non rinunciando comunque a tenere un’espressione strafottente e di superiorità, si inginocchiò alzando le mani. Gettò la pistola a qualche metro da lui, consapevole che la sua corsa finiva in quel luogo desolato. John gli si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi. “Bene, fine dei convenevoli, damerino!”. Lo colpì in pieno volto con il calcio del Kalashnikov, non poteva sopportare un secondo di più quell’espressione irriverente. Poco dopo arrivò il VTOL che li aveva trasportati fino alla costa mediterranea dell’Algeria. I marines che erano usciti sani e salvi dal bunker assieme all’agente Harris caricarono a bordo il boss degli uomini in nero e Alex, quindi decollarono. Atterrarono, dopo la sosta a Mascara-Ghriss, sulla USS Abraham Lincoln. Alex si era ormai completamente ripreso. Quando uscì dal velivolo, l’ammiraglio Morrison lo salutò e gli disse di recarsi in cabina di comando.
Entrò con John e vi trovò i genitori, suo fratello Brian, William e... Christine? Come faceva Christine a trovarsi lì? E soprattutto come faceva ad essere viva? Lei gli saltò addosso e lo abbracciò forte, Alex si mise a piangere dalla felicità. Aveva ritrovato tutti: faceva fatica a capacitarsene, visto che fino a qualche ora prima pensava di averli persi definitivamente. Quando l’agitazione generale si affievolì, il padre di Alex prese in disparte lui, Christine e William e disse loro: “Ora che siamo nuovamente tutti insieme, mi sembra giunto il momento di spiegarvi ogni cosa. Quello che sto per dirvi vi farà capire molti avvenimenti: il motivo per cui quell’organizzazione è interessata a te, Alex; perchè non sei morta, Christine…”. Prese fiato e cominciò a raccontare: “Quindici anni fa, durante alcuni nostri scavi proprio in Algeria, abbiamo rinvenuto un meteorite. Dagli esami effettuati nei laboratori della NASA, è stato rinvenuto molto DNA al suo interno, così in abbondanza da poter compiere altre numerose ricerche. Da alcuni esperimenti emerse che aveva speciali doti curative, ma non vi era niente di accertato. La prova siete stati voi due, figlioli. Quando queste informazioni riguardanti il DNA alieno ci giunsero, tua madre era incinta di te, Alex. Quella testarda non volle tornare a casa per stare tranquilla in maternità, ma lavorò nel sito archeologico fino al giorno della tua nascita. Proprio durante il parto, però, qualcosa andò storto. Non saresti sopravvissuto. Tutto a causa di alcune malformazioni nel tuo DNA, causate probabilmente dal meteorite stesso. Una volta tagliato il cordone ombelicale, il sangue continuava a colare lentamente ma inesorabilmente al di fuori del tuo corpo. L’emorragia non dava segni di arresto. Tua madre ed io dovemmo decidere velocemente il da farsi. In quell’ambulatorio sperduto non vi erano né le apparecchiature né i medicinali utili al caso, ma io avevo portato con me un campione di quel DNA. Tentammo il tutto per tutto: alcuni scienziati trapiantarono il campione nel tuo sistema centrale e riuscirono a modificare il tuo impianto genetico appena in tempo. L’operazione era durata a lungo, stavi quasi per esaurire tutto il sangue all’interno del tuo corpo, ma miracolosamente riuscisti a sopravvivere. Facevo fatica a crederci, avevo ormai perso tutte le speranze: non perdevi più sangue e tutti i valori si erano normalizzati. Un’altra donna incinta era venuta in contatto con il meteorite. Sto parlando di tua moglie, William. Faceva parte dello staff di ricercatori che aveva effettuato le prime analisi. Quando partorì, la piccola Christine aveva gli stessi tuoi sintomi, Alex. La salvammo nella stessa maniera.”. Il padre di Alex fece una breve pausa. “Non sappiamo dove sia finito il resto di quel DNA. È misteriosamente sparito. Non possiamo quindi prevedere che altri effetti possa avere nei vostri corpi. A giudicare da ciò che è accaduto nel momento dei due parti e a te Christine in queste ultime ventiquattr’ore, direi che il vostro corpo è in grado di rigenerarsi. Chissà poi che altri poteri potreste mai possedere.”. I tre ascoltatori erano esterrefatti. Fu Christine a prendere la parola: “Chi erano quegli uomini che volevano rapire Alex?”. “Il capo dell’organizzazione, quello vestito di bianco, era il finanziatore dei nostri scavi. Aveva scoperto qualcosa su alcuni manoscritti antichi ritrovati in Algeria riguardanti i poteri strabilianti di un oggetto che aveva la capacità di distruggere le future generazioni e, in alcuni casi, di uccidere i viventi. Quell’oggetto si era rivelato essere il meteorite. Lo voleva per poterlo vendere a qualche stato belligerante con l’intento di creare armi batteriologiche di nuova concezione; ma quando la CIA ha scoperto le sue intenzioni, ha convinto il governo algerino a toglierli la licenza degli scavi per consegnare il controllo agli americani. Non si sa come ma scoprì che il DNA alieno era stato impiantato su due esseri viventi, voi, e così creò l’organizzazione degli “uomini in nero” al fine di rapirvi per potervi analizzare. Avrebbe potuto creare un esercito immortale se fosse riuscito nella sua impresa. Questi sono i fatti. Fortunatamente, non avrà più questa opportunità, ma non penso sia il solo a sapere del potere del DNA. Ora torneremo a vivere negli USA, cambieremo identità e saremo sotto la protezione dello Zio Sam.”. Quando il padre di Alex terminò di parlare, entrò l’ammiraglio Morrison. Annunciò che l’Osprey era pronto a riportarli in America. Mentre si avviavano verso la pista di lancio, William si avvicinò ai due ragazzi e disse: “Questa prima minaccia è finita, non serve più che stia in Inghilterra, anche perché la mia casa non esiste più. Tornerò anch’io negli USA. Alex, molto probabilmente, per controllarci meglio, ci faranno vivere nello stesso paese. Ne sei contento? Potrai venire a far visita a me e Christine ogniqualvolta lo vorrai.”. Al sentire queste parole, Alex fu felicissimo: poteva stare a contatto con le persone che gli volevano bene, e soprattutto con la ragazza che amava! Si avvicinò a Christine e le sussurrò: “Hai sentito? Staremo ancora insieme!”. Lei annuì, le lacrime bagnavano le sue guance. Alex le sollevò dolcemente il viso e la baciò. Lei guardandolo negli occhi gli disse: “Noi staremo sempre insieme, nessuno riuscirà mai a separarci!”.


Alex & Christine



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1 commento:

  1. complimenti ragazzi!avete ftt un ottimo lavoro!mi è piaciuto un casino il racconto ke avete scritto!!!

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